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domenica 29 marzo 2015



Nell’ultimo numero di MeRi news abbiamo visto come sia importante, per controllare in anticipo gli attacchi della mosca delle olive (Bactrocera oleae), la data d’Inizio Infestazione (I.I.). Abbiamo anche visto che, per una stessa azienda (o per una stessa zona), le date d’I.I. da conoscere sono DUE: la data di I.I. attuale, cioè la data della prima ovideposizione della mosca nell’anno in corso e la data di I.I. media pluriennale, cioè la data media della prima ovideposizione nei dieci (meglio venti) anni precedenti.

Per una azienda, il modo più preciso e diretto per determinare la data di I.I. è di raccogliere, a partire dall’indurimento del nocciolo delle drupe (giugno), 100 olive ogni settimana, sezionarle e calcolare la percentuale di quelle con uova o larve (o pupe) della mosca. Ed è questa la procedura seguita solitamente dagli olivicoltori e (più spesso) dagli esperti delle loro associazioni. Tuttavia, per essere utile, la procedura va ripetuta, nella stessa azienda, per (ameno) dieci anni. Così, mentre per determinare la data di I.I. attuale basta applicare la procedura nell’anno in corso, per avere la I.I. media pluriennale ci vuole un periodo di tempo molto più lungo. E’ qui che casca l’asino. Considerando che il rischio di attacco della mosca olearia in un certo anno è dato dall’anticipo della I.I. attuale sulla I.I. media pluriennale, se non è nota la data di quest’ultima, la conoscenza della I.I. attuale non ha un valore previsionale.

Per determinare la data di I.I. media pluriennale si dovrebbe (o si sarebbe dovuto) mettere mano a progetti decennali di osservazioni dell’I.I. a livello di azienda (o di zona limitata); osservazioni eseguite sempre con la stessa procedura in modo da dare dati (e date) confrontabili da cui calcolare medie locali significative. Purtroppo, nel nostro Paese, risulta sempre più difficile realizzare, in agricoltura, progetti di così ampio respiro (è più facile organizzare mostre e fare spot pubblicitari). Molti progetti, dopo un inizio promettente, sono stati prematuramente interrotti (e non per mancanza d’idee e di prospettive). Come abbiamo visto nel post precedente. In generale, la vera difficoltà per la previsione degli attacchi della mosca olearia non risiede nella carenza di conoscenze scientifiche, ma nella mancanza di dati adeguati per applicarle.

Fortunatamente, non tutti i progetti a lungo termine in cui sono state determinate le date pluriennali d’I.I. della mosca sono stati interrotti ed alcuni di essi sono ancora in corso (come, ad esempio, in Toscana). Malgrado ciò, anche le zone sotto il loro controllo hanno subito un calo significativo della produzione di olio a causa della mosca nel 2014. Segno che c’è anche un altro asino che casca da un’altra parte. Dove?

L’esperienza dimostra che, nello stesso anno, l’incidenza degli attacchi della mosca olearia sono distribuiti sul territorio ‘a macchie di leopardo’ e che, anche negli anni di infestazione generalizzata, alcune zone sono colpite di più e altre di meno. Anche se la mosca vola, non vola troppo lontano, né da tutte le parti nello stesso modo, e la sua densità (e quindi il suo danno) varia sul territorio anche a piccola scala. Segno che, oltre al volo, altri fattori ambientali contribuiscono a determinarne la diffusione: microclima e vegetazione in primo luogo). In breve: l’entità degli attacchi della mosca non varia solo temporalmente (da un anno all’altro, da un mese all’altro), ma anche spazialmente (da un posto all’altro). Perciò, per un controllo veramente efficace della Bactrocera, si pone il problema di una Rete di Monitoraggio dell’Infestazione sul territorio. Dove analizzare le 100 olive e, soprattutto, quale deve essere la distanza ottimale dei punti di monitoraggio?

Per affrontare questo problema, mi riferisco, ancora una volta, al report ‘L’Olivicoltura nel Lazio: la mosca delle olive nel territorio del Lazio’ frutto della collaborazione tra il Laboratorio Entomologia della Scuola Sant’Anna di Pisa (Istituto Scienze della Vita) e l’Agenzia Regionale  ARSIAL della Regione Lazio.  Nel Capitolo 6: ‘Discussione dei risultati’, paragrafo: 6.2 ‘Ottimizzazione della rete di monitoraggio’, si suggerisce - in base ad un’analisi geostatistica molto accurata - che, per aree olivate omogenee è opportuno avere un punto di monitoraggio ogni 300 ha (ettari). E, dato che negli anni del progetto (1999 – 2003), in 300 ha di aree olivate del Lazio c’erano, in media, circa due punti di monitoraggio, si concludeva che la Regione, per quanto riguarda il controllo della Bactrocera, ha “una buona copertura del territorio”. Ora, però, se si considera che quei punti non sono diminuiti significativamente negli ultimi 10 anni, è lecito chiedersi: come si spiega il danno della mosca dello scorso anno anche nel Lazio?

Questa domanda non deve far pensare che una rete di monitoraggio avrebbe evitato da sé l’attacco della mosca olearia, attacco che dipende dalle condizioni climatiche e dalle caratteristiche biologiche dell’insetto. Essa vuole ribadire che, per ridurre i danni, il problema è quello di avere, in agricoltura, programmi decennali di ricerca applicata (ad esempio per conoscere l’I.I. media pluriennale) nei quali una rete di monitoraggio adeguata funzioni, senza interruzioni, da strumento scientifico per stabilire il ruolo delle suddette condizioni climatiche e caratteristiche biologiche nel territorio considerato … proprio negli anni eccezionali. Perché la conoscenza della Bactrocera non si fa soltanto nei laboratori universitari, ma soprattutto in campo … e per questo servono tempi lunghi. E poi, se vogliamo passare dalla mosca al suo danno (economico), mi pare opportuno riconoscere che questo vada visto in riferimento all’azienda.

Facciamo due conti. La superficie olivata del Lazio è di circa 110.000 ha e le aziende olivicole sono circa 86.000, dato che 110.000/86.000 = 1,28, una azienda olivicola della Regione gestisce in media (molto) meno di 2 ha di oliveto. Pur assumendo che ogni azienda abbia 2 ha, un punto di monitoraggio della Bactrocera ogni 300 ha dovrebbe ‘servire’ in media 150 aziende, se i punti di monitoraggio sono due, come nel Lazio, le aziende da servire scendono a 75. Se questo numero può essere considerato buono per scopi di programmazione regionale o provinciale (e a ciò si riferisce correttamente il report L’Olivicoltura nel Lazio ), esso è ancora troppo grande per poter parlare di controllo della Bactrocera ‘personalizzato’ per azienda. Per questo, è opportuno aumentare ulteriormente la densità dei punti di monitoraggio dell’infestazione e scendere al di sotto della densità di un punto ogni 100 ha, cioè ogni km2 di superficie olivata (solo nelle zone ad elevata densità olivicola). Una tale soluzione, che cura il danno della Bactrocera alla scala dell’azienda olearia, richiede un’organizzazione specifica e finanziamenti adeguati. Di ciò discuteremo nei prossimi numeri.

N.B. Il riferimento all’estensione dell’azienda media è puramente indicativo, ciò che conta è la variabilità topografica e microclimatica. Ma, sempre in media, considerando l’orografia tipica delle zone olivicole italiane (e, in particolare del Lazio), in due aziende distanti tra loro circa 1 km si dovranno distinguere, in media, due microclimi diversi e quindi due giorni diversi d’Inizio Infestazione. Questa asserzione è sostenuta, indirettamente, da una delle mappe riportate nella pubblicazione a cui ci riferiamo. Dalla Tavola VIII abbiamo estratto i risultati del primo campionamento delle olive. L’area rappresentata è all’incirca (20 x 20) km2 e mostra quanto sia variabile il grado d’infestazione iniziale sul territorio. Abbiamo anche aggiunto un grigliato tratteggiato con maglia di circa 2 km per mostrare che anche in un quadrato di 4 km2 (cioè 400 ha) il grado d’Infestazione Iniziale (e quindi la data) I.I. può variare, e di molto.     




Si ringraziano gli autori della pubblicazione per il permesso di lavorare sulla loro mappa.


Maurizio Severini

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giovedì 26 febbraio 2015




Ancora oggi, nella maggior parte delle comunità olivicole, gli olivicoltori fanno previsioni meteorologiche semplicemente guardando fuori dalla finestra. Osservando il movimento delle nuvole e prestando attenzione ai cambiamenti di direzione del vento (ah, il galletto sul tetto), basandosi sulla propria esperienza, prevedono se e come il tempo andrà a cambiare sul proprio oliveto. Qualcuno, più accorto, tende l’orecchio alle previsioni meteo diffuse dai canali TV; ma, in fondo, di esse non si fida perché l’esperienza gli ha dimostrato che, al più, esse sono indicative di una situazione media su un territorio molto più esteso della sua azienda. Mentre a lui servono previsioni locali ‘personalizzate’.

Le previsioni meteo locali sono fattibili, ma necessitano ancora di verifiche e d’investimenti prima di diventare di routine. Tuttavia, di fronte a danni come quelli della raccolta delle olive dello scorso anno, esse possono dispiegare il loro vantaggio economico fin da oggi. Va anche detto che le previsioni a microscala costituiscono uno dei principali obiettivi e una delle maggiori difficoltà della ricerca meteorologica attuale.

Storicamente, sorvolando sui vari metodi filosofici e/o empirici, le principali tappe della previsione meteorologica con metodi scientifici sono state tre: i) Previsione Statistica. Nel 18° secolo, grazie allo sviluppo delle telecomunicazioni, fu possibile verificare ipotesi secondo cui una data situazione meteo in un posto (ad esempio a Torino) si ripresentava con una certa probabilità dopo un giorno in un altro posto (ad es a Trieste). Verificato che la connessione si ripeteva, si cominciò a prevedere, dalla condizione meteo in un posto, quella del giorno dopo in un altro. Così cominciò svilupparsi una primitiva previsione locale. ii) Previsione Soggettiva. Nel 19° secolo, divenne importante la figura professionale del Previsore che, sulla base della teoria dello spostamento delle Masse d’Aria a grande scala traduceva le Carte Meteorologiche sinottiche in previsioni locali (a piccola scala) dipendenti dalla geografia del posto. iii) Previsione Numerica. All’inizio del 20° secolo, a partire dal lavoro di L.F. Richardson, si capì che il tempo meteorologico poteva essere previsto tramite Modelli Numerici. La previsione numerica usa Modelli Matematici dell’atmosfera e dell’oceano per prevedere il tempo futuro a partire dalla situazione attuale. Ma si dovette attendere fino allo sviluppo dei Modelli per Computer per avere previsioni realistiche e utili. Attualmente nel mondo, si producono computer sempre più potenti (supercomputer) per far ‘girare’ modelli numerici sempre più complessi per previsioni sempre più affidabili.


Il problema è che essi assumono che la descrizione fisica sia uguale da per tutto, cosa che non è necessariamente vera. Benché le leggi della fisica sono le stesse dovunque, il peso relativo dei vari fattori fisici (temperatura, umidità, ecc.) differisce secondo la geografia locale del territorio. In aggiunta, la natura caotica dell’atmosfera e la limitata precisione del calcolo numerico limitano l’estensione e l’accuratezza delle previsioni per la scala locale.

Oggi, è possibile superare questo problema integrando, grazie a computer estremamente potenti, i tre metodi di previsione visti sopra.

Assumendo come base di partenza le previsioni numeriche a grande scala fatte con Modelli di Circolazione Generale (General Circulation Models, GCM) dell’atmosfera e degli oceani, si riduce la scala tramite Modelli (numerici) ad Area Limitata (Limited Area Models, LAM), scala di previsione che si riduce ulteriormente con Modelli Statistici d’Uscita (Model Output Statistics, MOS). Questi ultimi contengono relazioni statistiche tra previsioni modellistiche degli anni precedenti e il tempo effettivamente osservato in superficie a piccola scala. Infine, un previsore umano esamina, con approccio soggettivo, sia l’uscita del modello LAM (di solito ad intervalli di 12 ore, in coincidenza con l’arrivo di nuove misure meteo) e sia le previsioni MOS per eliminare le previsioni anormali e migliorare la propria previsione meteo in superficie. Il vantaggio di combinare le tre metodologie è che ciò permette di specificare le previsioni meteorologiche basate sui modelli numerici in una zona ben definita del territorio, usando statistiche che riflettono i fattori locali altrimenti non rappresentati. 
 

Tanto più fitti (spazialmente e temporalmente) sono i dati meteo locali e tanto più lunghe sono le loro serie storiche tanto più affidabili e localizzate saranno le previsioni fatte dal previsore umano su base statistica. In particolare, la densità spaziale della rete meteo di un territorio finisce col determinare la dimensione dei pixel in cui una previsione è affidabile e d’utilità pratica.

Ora, se consideriamo che le reti meteo più fitte sul territorio italiano sono quelle gestite dalle Regioni e che, nel migliore dei casi, i punti di misura hanno una distanza media di 10 km, possiamo considerare che il pixel di una previsione meteo locale non può riferirsi a un’area molto più piccola di 100 km2. Cioè 100 volte maggiore del pixel d’azienda (1 km2) definito nel post precedente (MeRi news N. 06). Visto che è questo pixel che porta informazioni utili alle aziende olivicole (e, più in generale alla maggior parte delle aziende agricole italiane), le previsioni meteo su base statistica debbono raggiungere la risoluzione di 1 km2. E ciò è possibile disponendo sul territorio di una rete di misure meteo con una maglia media di 3-4 km. 
 


La successione delle tre immagini qui sopra può essere vista come una zoomata sulla Regione Emilia-Romagna; l’ultima, in particolare, mostra una delle reti pluviometriche più fitte d’Italia. Ma neanche questa è sufficiente, da sola, per previsioni aziendali personalizzate. Per dare un’idea di ciò che serve, mostriamo una rete di monitoraggio meteorologico installata sul versante del Vulcano Laziale che guarda verso Roma. Reti così fitte si possono realizzare integrando i punti di monitoraggio meteo dei Servizi Nazionali e Regionali già operanti sul territorio (cerchietti rossi) con nuovi punti di misura intermedi collocati opportunamente (cerchietti neri). Una tale densità di stazioni serve solo su territori limitati e con vocazione per colture ad alto reddito, come l’olivicoltura e la viticoltura DOP. 
 
Naturalmente, queste reti hanno costi di installazione e di gestione, nonché di collegamento col previsore e di comunicazione delle previsioni agli utenti. Chi può sostenere questi costi? “Un Ente Pubblico”. Penserà subito qualcuno. Invece io credo che sarebbe meglio che le spese per le previsioni meteo locali personalizzate siano sostenute, con fondi privati, dalle organizzazioni degli olivicoltori: consorzi, cooperative, associazioni. Così, tra l’altro, si avrebbe come risultato che i vantaggi derivanti dalle previsioni meteo locali sarebbero controllati direttamente da chi c’investe su.

Maurizio Severini  

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mercoledì 18 febbraio 2015


Più di un follower del nostro blog vuole sapere come si possono fare le previsioni meteo ‘personalizzate’ per azienda. Rispondo volentieri. Ma avverto che l’argomento è un po’ tecnico e non basterà questo post per esaurirlo.

Solo una piccola percentuale di aziende, in Italia, ha una Superficie Agricola Utilizzata (SAU) maggiore di 100 ettari (1 km2). La maggior parte di quelle che producono un reddito significativo ha tra 5 e 20 ettari (in media 10 ettari (330 m x 330 m). Sono queste le aziende che possono investire in ricerca e innovazione, oltre, naturalmente, a quelle più grandi. Perché faccio riferimento alle dimensioni delle aziende? Perché, volendo fare previsioni meteo personalizzate, si deve spingere il potere risolutivo delle previsioni meteo alla scala delle aziende agricole.

Queste previsioni, dette a microscala, rappresentano ancora oggi uno dei problemi più difficili della meteorologia. Ma la soluzione, oggi, è a portata di mano e ci si dovrà arrivare quanto prima se il ruolo della meteorologia in agricoltura non vuole limitarsi a una bella chiacchierata. Non bisogna, tuttavia, nascondere che la previsione personalizzata, seppure fattibile, necessiti ancora di ricerca scientifica e d’investimenti, dei quali, a mio avviso, si dovranno far carico anche le organizzazioni dei produttori. Accennerò in questo post al metodo per rappresentare la meteorologia del territorio a microscala e nel prossimo a quello per prevederla.

La parola pixel (dall’inglese: picture element = elemento d’immagine) indica la superficie più piccola che, insieme a centinaia (o a migliaia, o a milioni) di altre, tutte della stessa dimensione, forma una immagine (detta digitale). Un pixel è un elemento nel senso che, qualunque sia la scena rappresentata nell’immagine, la sua caratteristica (ad esempio il colore) non varia all’interno del pixel pur potendo cambiare da pixel a pixel. Nell’immagine di lato, per esempio, ogni quadratino colorato è un pixel. Naturalmente, tanto più piccole sono le dimensioni del pixel e tanto maggiore è il numero di dettagli che si possono rappresentare in un’immagine.      


Anche una carta meteorologica, oggi, si presenta come una immagine digitale fatta di pixel, solo che in questo caso i colori dei pixel non rappresentano quelli di una scena reale (come nelle fotografie), bensì i valori di una grandezza fisica meteorologica sul territorio. Ad esempio, l’immagine sottostante rappresenta le precipitazioni giornaliere su una zona dei Castelli Romani. Qui, i pixel indicano (in scala) quadrati di lato 1 km e le diverse intensità di azzurro le differenti intensità di pioggia nei diversi pixel (scuro fino a 15 mm, intermedio fino a 10 mm, chiaro fino a 5 mm, bianco assenza di pioggia). Per essere utile all’agricoltore, ad esempio, per guidarlo nelle tecniche colturali o negli interventi fitosanitari, le dimensioni del pixel devono essere paragonabili a quelle della sua azienda.

A rigore, dato che in un pixel il valore della grandezza fisica rappresentata (precipitazione, temperatura, umidità, ecc.) non cambia, per dare una informazione personalizzata ad un’azienda di 10 ettari e distinguerla da una vicina, il pixel della carta meteorologica dovrebbe avere un’area di 0,1 km2 (un quadrato di lato 330 m). Tuttavia, per l’agrometeorologia, non è indispensabile una risoluzione spaziale tanto spinta.
Ciò che succede in un punto del territorio è legato a ciò che succede nei punti circostanti e dipende, in primo luogo, dall’orografia. Dato che, per una azienda, l’orografia circostante resta sempre la stessa, il tempo meteorologico non varia troppo da un’azienda ad una limitrofa (alla distanza di qualche centinaio di metri). E così, con territori non troppo accidentati, carte meteo con pixel da 0,5 fino a 1,0 km2 , come quella mostrata sopra, si possono considerare utili per previsioni agrometeo personalizzate. Chiameremo pixel d’azienda il pixel di un kilometro quadrato.

Stabilita la dimensione del pixel utile all’agrometeorologia, col colore che gli viene attribuito si può rappresentare il valore di una qualunque grandezza fisica (temperatura, precipitazione, ecc.) o d’interesse agrario (fenologia di una coltura, densità di parassiti, data di raccolta, ecc.) utilizzabile per le pratiche agricole dalle aziende che risiedono in esso.

Consideriamo, ad esempio, la mappa digitale delle precipitazioni giornaliere riportata sopra. Essa si riferisce a un territorio di (10 x 10) = 100 km2 con 100 pixel d’azienda al suo interno. Il colore di ciascun pixel indica la quantità di precipitazione; perciò, in essa, sono rappresentati 100 valori di precipitazione. Come è possibile determinarli tutti? Certamente, sarebbe troppo costoso (e anche inutile) collocare uno strumento di misura delle precipitazioni (un pluviometro) in corrispondenza di ciascun pixel (servirebbero 100 pluviometri!). Per questo, si applicano i metodi della geostatistica (noti anche come tecniche GIS – Geographic Information System), una branca delle scienze statistiche, che permettono di calcolare i valori di precipitazione in tutti i pixel d’azienda del territorio a partire dalle misure di pochi pluviometri collocati opportunamente. La mappa sottostante mostra la posizione di dieci pluviometri (cerchietti rossi) buoni per calcolare le precipitazioni dei 100 pixel d’azienda.


Con una mappa come questa, ogni azienda in quest’area di 100 km2, sapendo qual è il suo pixel, sa quanta pioggia ha ricevuto nella giornata e può avere un’informazione utile per le sue attività senza dover eseguire misurazioni dirette. Considerando che in ciascun pixel d’azienda ci sono almeno tre aziende, con 10 pluviometri se ne servono almeno 300 (spesso di più). Ma, come si vede, la distanza media di ciascun pluviometro da quello più vicino è di circa 3 km. E in Italia non esiste, a quanto ne so, nessun comprensorio agricolo tanto ampio con una rete di pluviometri tanto fitta.

Maurizio Severini
 

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