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giovedì 26 febbraio 2015




Ancora oggi, nella maggior parte delle comunità olivicole, gli olivicoltori fanno previsioni meteorologiche semplicemente guardando fuori dalla finestra. Osservando il movimento delle nuvole e prestando attenzione ai cambiamenti di direzione del vento (ah, il galletto sul tetto), basandosi sulla propria esperienza, prevedono se e come il tempo andrà a cambiare sul proprio oliveto. Qualcuno, più accorto, tende l’orecchio alle previsioni meteo diffuse dai canali TV; ma, in fondo, di esse non si fida perché l’esperienza gli ha dimostrato che, al più, esse sono indicative di una situazione media su un territorio molto più esteso della sua azienda. Mentre a lui servono previsioni locali ‘personalizzate’.

Le previsioni meteo locali sono fattibili, ma necessitano ancora di verifiche e d’investimenti prima di diventare di routine. Tuttavia, di fronte a danni come quelli della raccolta delle olive dello scorso anno, esse possono dispiegare il loro vantaggio economico fin da oggi. Va anche detto che le previsioni a microscala costituiscono uno dei principali obiettivi e una delle maggiori difficoltà della ricerca meteorologica attuale.

Storicamente, sorvolando sui vari metodi filosofici e/o empirici, le principali tappe della previsione meteorologica con metodi scientifici sono state tre: i) Previsione Statistica. Nel 18° secolo, grazie allo sviluppo delle telecomunicazioni, fu possibile verificare ipotesi secondo cui una data situazione meteo in un posto (ad esempio a Torino) si ripresentava con una certa probabilità dopo un giorno in un altro posto (ad es a Trieste). Verificato che la connessione si ripeteva, si cominciò a prevedere, dalla condizione meteo in un posto, quella del giorno dopo in un altro. Così cominciò svilupparsi una primitiva previsione locale. ii) Previsione Soggettiva. Nel 19° secolo, divenne importante la figura professionale del Previsore che, sulla base della teoria dello spostamento delle Masse d’Aria a grande scala traduceva le Carte Meteorologiche sinottiche in previsioni locali (a piccola scala) dipendenti dalla geografia del posto. iii) Previsione Numerica. All’inizio del 20° secolo, a partire dal lavoro di L.F. Richardson, si capì che il tempo meteorologico poteva essere previsto tramite Modelli Numerici. La previsione numerica usa Modelli Matematici dell’atmosfera e dell’oceano per prevedere il tempo futuro a partire dalla situazione attuale. Ma si dovette attendere fino allo sviluppo dei Modelli per Computer per avere previsioni realistiche e utili. Attualmente nel mondo, si producono computer sempre più potenti (supercomputer) per far ‘girare’ modelli numerici sempre più complessi per previsioni sempre più affidabili.


Il problema è che essi assumono che la descrizione fisica sia uguale da per tutto, cosa che non è necessariamente vera. Benché le leggi della fisica sono le stesse dovunque, il peso relativo dei vari fattori fisici (temperatura, umidità, ecc.) differisce secondo la geografia locale del territorio. In aggiunta, la natura caotica dell’atmosfera e la limitata precisione del calcolo numerico limitano l’estensione e l’accuratezza delle previsioni per la scala locale.

Oggi, è possibile superare questo problema integrando, grazie a computer estremamente potenti, i tre metodi di previsione visti sopra.

Assumendo come base di partenza le previsioni numeriche a grande scala fatte con Modelli di Circolazione Generale (General Circulation Models, GCM) dell’atmosfera e degli oceani, si riduce la scala tramite Modelli (numerici) ad Area Limitata (Limited Area Models, LAM), scala di previsione che si riduce ulteriormente con Modelli Statistici d’Uscita (Model Output Statistics, MOS). Questi ultimi contengono relazioni statistiche tra previsioni modellistiche degli anni precedenti e il tempo effettivamente osservato in superficie a piccola scala. Infine, un previsore umano esamina, con approccio soggettivo, sia l’uscita del modello LAM (di solito ad intervalli di 12 ore, in coincidenza con l’arrivo di nuove misure meteo) e sia le previsioni MOS per eliminare le previsioni anormali e migliorare la propria previsione meteo in superficie. Il vantaggio di combinare le tre metodologie è che ciò permette di specificare le previsioni meteorologiche basate sui modelli numerici in una zona ben definita del territorio, usando statistiche che riflettono i fattori locali altrimenti non rappresentati. 
 

Tanto più fitti (spazialmente e temporalmente) sono i dati meteo locali e tanto più lunghe sono le loro serie storiche tanto più affidabili e localizzate saranno le previsioni fatte dal previsore umano su base statistica. In particolare, la densità spaziale della rete meteo di un territorio finisce col determinare la dimensione dei pixel in cui una previsione è affidabile e d’utilità pratica.

Ora, se consideriamo che le reti meteo più fitte sul territorio italiano sono quelle gestite dalle Regioni e che, nel migliore dei casi, i punti di misura hanno una distanza media di 10 km, possiamo considerare che il pixel di una previsione meteo locale non può riferirsi a un’area molto più piccola di 100 km2. Cioè 100 volte maggiore del pixel d’azienda (1 km2) definito nel post precedente (MeRi news N. 06). Visto che è questo pixel che porta informazioni utili alle aziende olivicole (e, più in generale alla maggior parte delle aziende agricole italiane), le previsioni meteo su base statistica debbono raggiungere la risoluzione di 1 km2. E ciò è possibile disponendo sul territorio di una rete di misure meteo con una maglia media di 3-4 km. 
 


La successione delle tre immagini qui sopra può essere vista come una zoomata sulla Regione Emilia-Romagna; l’ultima, in particolare, mostra una delle reti pluviometriche più fitte d’Italia. Ma neanche questa è sufficiente, da sola, per previsioni aziendali personalizzate. Per dare un’idea di ciò che serve, mostriamo una rete di monitoraggio meteorologico installata sul versante del Vulcano Laziale che guarda verso Roma. Reti così fitte si possono realizzare integrando i punti di monitoraggio meteo dei Servizi Nazionali e Regionali già operanti sul territorio (cerchietti rossi) con nuovi punti di misura intermedi collocati opportunamente (cerchietti neri). Una tale densità di stazioni serve solo su territori limitati e con vocazione per colture ad alto reddito, come l’olivicoltura e la viticoltura DOP. 
 
Naturalmente, queste reti hanno costi di installazione e di gestione, nonché di collegamento col previsore e di comunicazione delle previsioni agli utenti. Chi può sostenere questi costi? “Un Ente Pubblico”. Penserà subito qualcuno. Invece io credo che sarebbe meglio che le spese per le previsioni meteo locali personalizzate siano sostenute, con fondi privati, dalle organizzazioni degli olivicoltori: consorzi, cooperative, associazioni. Così, tra l’altro, si avrebbe come risultato che i vantaggi derivanti dalle previsioni meteo locali sarebbero controllati direttamente da chi c’investe su.

Maurizio Severini  

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mercoledì 18 febbraio 2015


Più di un follower del nostro blog vuole sapere come si possono fare le previsioni meteo ‘personalizzate’ per azienda. Rispondo volentieri. Ma avverto che l’argomento è un po’ tecnico e non basterà questo post per esaurirlo.

Solo una piccola percentuale di aziende, in Italia, ha una Superficie Agricola Utilizzata (SAU) maggiore di 100 ettari (1 km2). La maggior parte di quelle che producono un reddito significativo ha tra 5 e 20 ettari (in media 10 ettari (330 m x 330 m). Sono queste le aziende che possono investire in ricerca e innovazione, oltre, naturalmente, a quelle più grandi. Perché faccio riferimento alle dimensioni delle aziende? Perché, volendo fare previsioni meteo personalizzate, si deve spingere il potere risolutivo delle previsioni meteo alla scala delle aziende agricole.

Queste previsioni, dette a microscala, rappresentano ancora oggi uno dei problemi più difficili della meteorologia. Ma la soluzione, oggi, è a portata di mano e ci si dovrà arrivare quanto prima se il ruolo della meteorologia in agricoltura non vuole limitarsi a una bella chiacchierata. Non bisogna, tuttavia, nascondere che la previsione personalizzata, seppure fattibile, necessiti ancora di ricerca scientifica e d’investimenti, dei quali, a mio avviso, si dovranno far carico anche le organizzazioni dei produttori. Accennerò in questo post al metodo per rappresentare la meteorologia del territorio a microscala e nel prossimo a quello per prevederla.

La parola pixel (dall’inglese: picture element = elemento d’immagine) indica la superficie più piccola che, insieme a centinaia (o a migliaia, o a milioni) di altre, tutte della stessa dimensione, forma una immagine (detta digitale). Un pixel è un elemento nel senso che, qualunque sia la scena rappresentata nell’immagine, la sua caratteristica (ad esempio il colore) non varia all’interno del pixel pur potendo cambiare da pixel a pixel. Nell’immagine di lato, per esempio, ogni quadratino colorato è un pixel. Naturalmente, tanto più piccole sono le dimensioni del pixel e tanto maggiore è il numero di dettagli che si possono rappresentare in un’immagine.      


Anche una carta meteorologica, oggi, si presenta come una immagine digitale fatta di pixel, solo che in questo caso i colori dei pixel non rappresentano quelli di una scena reale (come nelle fotografie), bensì i valori di una grandezza fisica meteorologica sul territorio. Ad esempio, l’immagine sottostante rappresenta le precipitazioni giornaliere su una zona dei Castelli Romani. Qui, i pixel indicano (in scala) quadrati di lato 1 km e le diverse intensità di azzurro le differenti intensità di pioggia nei diversi pixel (scuro fino a 15 mm, intermedio fino a 10 mm, chiaro fino a 5 mm, bianco assenza di pioggia). Per essere utile all’agricoltore, ad esempio, per guidarlo nelle tecniche colturali o negli interventi fitosanitari, le dimensioni del pixel devono essere paragonabili a quelle della sua azienda.

A rigore, dato che in un pixel il valore della grandezza fisica rappresentata (precipitazione, temperatura, umidità, ecc.) non cambia, per dare una informazione personalizzata ad un’azienda di 10 ettari e distinguerla da una vicina, il pixel della carta meteorologica dovrebbe avere un’area di 0,1 km2 (un quadrato di lato 330 m). Tuttavia, per l’agrometeorologia, non è indispensabile una risoluzione spaziale tanto spinta.
Ciò che succede in un punto del territorio è legato a ciò che succede nei punti circostanti e dipende, in primo luogo, dall’orografia. Dato che, per una azienda, l’orografia circostante resta sempre la stessa, il tempo meteorologico non varia troppo da un’azienda ad una limitrofa (alla distanza di qualche centinaio di metri). E così, con territori non troppo accidentati, carte meteo con pixel da 0,5 fino a 1,0 km2 , come quella mostrata sopra, si possono considerare utili per previsioni agrometeo personalizzate. Chiameremo pixel d’azienda il pixel di un kilometro quadrato.

Stabilita la dimensione del pixel utile all’agrometeorologia, col colore che gli viene attribuito si può rappresentare il valore di una qualunque grandezza fisica (temperatura, precipitazione, ecc.) o d’interesse agrario (fenologia di una coltura, densità di parassiti, data di raccolta, ecc.) utilizzabile per le pratiche agricole dalle aziende che risiedono in esso.

Consideriamo, ad esempio, la mappa digitale delle precipitazioni giornaliere riportata sopra. Essa si riferisce a un territorio di (10 x 10) = 100 km2 con 100 pixel d’azienda al suo interno. Il colore di ciascun pixel indica la quantità di precipitazione; perciò, in essa, sono rappresentati 100 valori di precipitazione. Come è possibile determinarli tutti? Certamente, sarebbe troppo costoso (e anche inutile) collocare uno strumento di misura delle precipitazioni (un pluviometro) in corrispondenza di ciascun pixel (servirebbero 100 pluviometri!). Per questo, si applicano i metodi della geostatistica (noti anche come tecniche GIS – Geographic Information System), una branca delle scienze statistiche, che permettono di calcolare i valori di precipitazione in tutti i pixel d’azienda del territorio a partire dalle misure di pochi pluviometri collocati opportunamente. La mappa sottostante mostra la posizione di dieci pluviometri (cerchietti rossi) buoni per calcolare le precipitazioni dei 100 pixel d’azienda.


Con una mappa come questa, ogni azienda in quest’area di 100 km2, sapendo qual è il suo pixel, sa quanta pioggia ha ricevuto nella giornata e può avere un’informazione utile per le sue attività senza dover eseguire misurazioni dirette. Considerando che in ciascun pixel d’azienda ci sono almeno tre aziende, con 10 pluviometri se ne servono almeno 300 (spesso di più). Ma, come si vede, la distanza media di ciascun pluviometro da quello più vicino è di circa 3 km. E in Italia non esiste, a quanto ne so, nessun comprensorio agricolo tanto ampio con una rete di pluviometri tanto fitta.

Maurizio Severini

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giovedì 12 febbraio 2015


Nei quattro numeri precedenti di MeRi news abbiamo provato a rispondere al coro di esperti e giornalisti che ha sostenuto l’inevitabilità della perdita d’olio dell’annata 2014 sostenendo che qualcosa di più per ridurre la perdita di olive si sarebbe potuto fare: bastava applicare il Dimetoato agli olivi a tempo debito. Certo, ciò avrebbe richiesto ben altra attenzione ed organizzazione di quella con cui è stato affrontato il problema e sono attualmente gestiti gli oliveti. E con ciò non mi riferisco a qualche oliveto sperimentale di qualche dipartimento di agraria o centro di ricerca, ma alla maggior parte degli oliveti, quelli che poi, di fatto, determinano la produzione di olio. In questi, le tecniche colturali, di difesa e di raccolta non differiscono molto da quelle di un secolo fa e conoscenza scientifica, innovazione e ricerca trovano scarsi riscontri.

Nel numero precedente, dopo aver cercato di dare un’idea di quanto sia impegnativa la tecnica per la protezione degli oliveti (previsioni meteo personalizzate + analisi delle olive infestate + uso del Dimetoato a tempo debito), abbiamo concluso osservando come sia molto più semplice sperare che tutto vada per il meglio e, in caso contrario, chiedere contributi pubblici. Ma il ritardo dell’innovazione tecnica nella protezione degli olivi (come delle altre colture) non dipende, nel nostro Paese, soltanto da una carenza di mezzi. Un vero e proprio ritardo culturale accomuna una moltitudine di operatori agricoli ‘ fai da te ’ e opinione pubblica: l’avversione all’uso di prodotti chimici in agricoltura. Anche per questo, molti olivicoltori rifiutano sdegnosamente anche solo di parlare di ricorso all’uso del Dimetoato. Secondo loro, dato che il prodotto è tossico, esso è nocivo per la salute e per l’ambiente. Questo è vero, ma il rischio dipende da quanto prodotto si usa; e ci sono regole precise da rispettare nel suo impiego perché il Dimetoato, potenzialmente tossico, non provochi danni né alla salute e né all’ambiente.

Le regole per l’uso del Dimetoato (come degli altri prodotti fitosanitari) sono il risultato di ricerche scientifiche e sperimentazioni serie fatte non solo dalle industrie chimiche private produttrici, ma anche dagli Enti pubblici che hanno il compito di tutelare la salute dei cittadini, degli animali e dell’ambiente. Queste regole sono diverse e articolate in relazione al grado di efficienza e pericolosità dei prodotti e riguardano: il loro acquisto, trasporto e conservazione, il metodo di difesa (a calendario, guidata, biologica, integrata), l’etichettatura, l’uso, la pulizia e il ricovero delle macchine irroratrici, lo smaltimento, ecc.. (consultare ad es.: ‘Guida al corretto impiego dei prodotti fitosanitari’ Regione Lazio, 2009; oppure la Determinazione A02562 del 4 aprile 2013 della Regione Lazio). Ciò che mi preme puntualizzare qui è che l’uso del Dimetoato, nel rigoroso rispetto di queste regole, è un importante contributo della Ricerca Scientifica alla produzione dell’olio e non un subdolo attentato alla qualità dell’ambiente e alla salute umana. Se mai è il rifiuto ‘a priori ’ di questo prodotto a essere un modo irrazionale di protezione degli oliveti. Le regole per l’uso sicuro ed efficiente dei prodotti fitosanitari ci sono, basta rispettarle (e farle rispettare).

Spulciando tra le decine di articoli in rete sul calo dell’olio del 2014, da cui abbiamo preso le mosse fin dal primo numero di MeRi news, abbiamo trovato qualche nota fuori dal coro (poche, in verità), che merita di essere ripresa. A proposito di olivicoltura c’è chi sostiene che non c'è conoscenza e ci si affida a quello che facevano i nostri nonni, chi che non si può continuare a fare l'olio come 60 anni fa, chi che l'agricoltura è cambiata e il clima anche, e perciò è necessario aggiornarsi e chi che l’Italia è rimasta arretrata per quanto riguarda l’olivicoltura moderna. Poi si trovano anche critiche più specifiche come: abbiamo rinunciato alla sperimentazione, stiamo abbandonando la ricerca che ci aveva reso celebri nel mondo, le forze della natura esistono e incidono, ma quello che fa la differenza è la preparazione. Infine, in un post di RGU notizie ho trovato la proposta più sensata: dopo l’invito a ‘ non creare allarmismi ’ a proposito del calo di produzione dell’olio, si afferma ‘ la volontà di chiedere a gran voce un osservatorio su l'andamento dei fenomeni fitosanitari ’.  

L’introduzione del metodo scientifico nella difesa fitosanitaria degli oliveti (e delle altre colture), con ciò che comporta in termini di conoscenze, organizzazione, monitoraggio, strumenti, investimenti, ecc. non è cosa che può  competere alle singole aziende, bensì alle loro organizzazioni: consorzi, cooperative, associazioni. Sono queste che dovrebbero (e avrebbero dovuto) preoccuparsi d’introdurre innovazione nelle pratiche agricole tradizionali. E invece, leggendo le loro reazioni di fronte al calo della produzione di olio dello scorso anno, esse sembrano preoccupate a fronteggiare l’emergenza attuale (cosa più che necessaria), ma non di prepararsi ad affrontare i prossimi attacchi della Bactrocera con maggiori probabilità di successo.

Nell’incontro di Montepaldi del 19 dicembre 2014 (http://www.scuoladellolio.it/it/news/19-andamento-climatico-e-infestazione-di-mosca-olearia ), in cui si sono analizzate la cause del calo dell’olio in Toscana, il prof. R. Petacchi della Scuola Sant’Anna di Pisa, nella presentazione ‘La mosca delle olive: il punto sulla bioecologia alla luce anche dell'annata olivicola 2014’, ha mostrato un grafico, relativo all’analisi dei dati della sua regione, da cui risulta che le ultime infestazioni dannose della mosca olearia si sono succedute ad intervalli di (circa) sette anni (2001, 2007, 2014). Non disponendo di dati altrettanto accurati, possiamo ipotizzare che anche nelle altre regioni dell’Italia Centrale il ritmo degli attacchi dannosi sia simile. Le organizzazioni degli olivicoltori hanno dunque a disposizione (circa) sette anni per affrontare la Bactrocera in modo più razionale di come hanno fatto finora (e con maggiori probabilità di successo).   


Maurizio Severini




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mercoledì 4 febbraio 2015


Ragionando sulle cause della diminuzione di produzione dell’olio d’oliva di qualità verificata lo scorso anno, diminuzione quasi unanimemente attribuita dagli esperti agli attacchi della mosca olearia (Bactrocera oleae) ed al tempo meteorologico, nei numeri precedenti, ci siamo domandati se si sarebbe potuto fare qualcosa di più per evitare questa “catastrofe”. E la risposta è stata sì, a condizione di usare l’insetticida Dimetoato a “tempo debito”, cioè sulla base di previsioni meteo locali personalizzate per le aziende. In questo numero, cercheremo di specificare il tempo debito non soltanto in relazione alle vicissitudini del tempo, ma anche alle caratteristiche nella mosca.

Partiamo ancora dalla voce ‘Bactrocera oleae’ di Wikipedia. (che chiunque può controllare sul web).  “Le femmine depongono le uova a partire dall'estate inoltrata, quando l'oliva ha almeno un diametro di 7-8 mm. L'ovideposizione avviene praticando una puntura con l'ovopositore sulla buccia dell'oliva e lasciando un solo uovo nella cavità sottostante”. “La schiusura dell'uovo avviene dopo un periodo variabile secondo le condizioni climatiche: da 2-3 giorni nel periodo estivo ad una decina di giorni nel periodo autunnale. La larva neonata scava inizialmente una galleria superficiale, ma in seguito si sposta in profondità nella polpa fino ad arrivare al nocciolo, che in ogni modo non viene intaccato. Durante lo sviluppo larvale avvengono due mute con conseguente incremento delle dimensioni della larva. In prossimità della terza muta la larva di terza età si sposta verso la superficie e prepara il foro d’uscita per l'adulto rodendo la polpa fino a lasciare un sottilissimo strato superficiale”. Poi si trasforma in pupa. ”La pupa resta quiescente nella cavità sottostante, protetta all'interno del pupario formato dall'esuvia della larva matura”, finché non si trasforma in adulto (la mosca) che lascia l’oliva attraverso il foro d’uscita .

Il riferimento all’ “estate inoltrata” è troppo vago. L’inizio dell’infestazione varia da una località all’altra in relazione all’andamento meteo dei mesi precedenti. Ritorneremo su questo punto. Ci soffermiamo, invece, sulle dimensioni della larva. La larva che sguscia dall’uovo deposto dalla mosca (larva di Prima Età, L1) è molto piccola (1 mm) e scava una “galleria superficiale”, cioè immediatamente al di sotto dell’epidermide dell’oliva. E’ qui che esplica la sua azione il Dimetoato (o un altro prodotto citotropico). Naturalmente, le mosche olearie non depongono le uova in tutte le olive nello stesso giorno; ma l’insetticida, una volta penetrato, rimane lì per circa tre settimane prima di essere degradato dai processi metabolici interni del frutto. Quindi, se il Dimetoato viene dato a tempo debito, esso svolge la sua attività curativa all’interno dei frutti nella fase incipiente dell’infezione, quando le larve sono molto piccole e le loro gallerie sono superficiali, cioè quando i danni alle olive sono molto limitati.

Se le larve di prima età (L1) non vengono uccise a tempo debito, si sviluppano nell’oliva e, dopo circa 5 giorni subiscono la prima muta: perdono lo scheletro esterno, s’ingrossano e diventano larve di Seconda Età (L2). Queste, essendo più grandi, danneggiano di più la polpa del frutto e, soprattutto, cominciano a scavare gallerie in profondità, dove l’effetto degli insetticidi citotropici (e quindi dei trattamenti) diminuisce progressivamente. Da un certo punto in poi, lo sviluppo delle larve L2 va avanti da sé. Le larve L2 subiscono la seconda muta e diventano larve di Terza Età. Le L3 sono larve grandi (fino a 8 mm) che scavano grandi gallerie sempre più profonde, vi rilasciano i loro escrementi e arrivano spesso fino al nocciolo. A questo punto, l’oliva è persa.

Quindi, le olive non si perdono (o almeno la loro perdita si riduce notevolmente) se il Dimetoato si dà a tempo debito, cioè in una settimana in cui ha inizio una intensa ovideposizione di uova della mosca olearia e in un giorno in cui è si prevede che non pioverà nel giorno successivo. Le trappole aiutano ad individuare la settimana, con le previsioni locali ‘personalizzate’ si trova il giorno.  

Le trappole in campo, per il monitoraggio, è bene posizionarle verso metà-fine giugno quando le mosche non depongono ancora le uova anche a causa della scarsa recettività delle olive da olio. Le trappole attraggono le mosche che volano nell’oliveto con un’esca che emette odori sessuali (feromoni) e le catturano con una sostanza vischiosa. Il numero delle catture settimanali dipende in qualche modo dalla densità delle mosche e quando questo supera un certo valore (ad es. valore medio in tre trappole: 10 adulti/settimana) l’infestazione può già essere in atto. D’ora in poi,  per intervenire a tempo debito col Dimetoato, si deve diagnosticare settimanalmente l’Infestazione Attiva (I.A.) delle olive; e questo si fa cogliendo un campione di 100 olive a caso, sezionandole e calcolando la percentuale di olive con uova o larve piccole (di 1° e 2° età). La settimana in cui la I.A. supera il 10%, la cosiddetta Soglia d’Intervento, s’interviene col Dimetoato o con un altro insetticida citotropico (MeRi news N. 3). Quante volte si può intervenire? Il Dimetoato è un prodotto tossico e (giustamente) esistono regole e  ‘disciplinari’ che ne limitano l’impiego; ma queste regole non sono stabilite a caso e, se applicate a tempo debito (previsioni meteo personalizzate + soglia d’intervento), permettono di proteggere adeguatamente la produzione delle olive e la qualità dell’olio.

Abbiamo descritto con un minimo di dettaglio le operazioni necessarie per la protezione degli oliveti dagli attacchi della mosca olearia per mostrare quanto siano articolate, complesse e costose queste operazioni. Ma anche per mostrare che esse sono fattibili. Certo, è molto più semplice non farle, sperare che tutto vada per il meglio ed, in caso contrario, chiedere contributi pubblici per sostenere il prezzo e la qualità dell’olio d’oliva italiano. 


Maurizio Severini 

 

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